I casi Leonard e James fanno riflettere : riposare e vincere sono sinonimi?

Se cercate un dibattito strettamente d’attualità e multisportivo, nulla dovrebbe soddisfarvi più di quello legato al cosidetto “load management”, che in queste settimane sta facendo discutere tanto gli esperti di pallacanestro quanto quelli calcistici.
Prima di addentrarci nella questione, dobbiamo però inquadrare il termine. Il load management, gestione del carico se tradotto letteralmente tradotto in italiano, è una misura adottata nell’ultimo anno in NBA al fine di permettere alle superstar di arrivare al massimo della loro condizione nei momenti clou della stagione, ovvero ai playoff. Per dirla in maniera semplice, i fenomeni vanno in panchina durante la stagione, soprattutto nei match di poco conto, per evitare di sprecare quelle energie necessarie a dare il 100% quando la posta in palio è piuttosto alta.
Nonostante il load management sia ufficialmente emerso negli Stati Uniti, la gestione del talento era qualcosa che il Real Madrid era già abituato a fare con Cristiano Ronaldo: d’altronde, tre Champions League consecutive non arrivano per caso.
Perché contestarlo
Incominciamo col mettere nero su bianco una verità piuttosto ovvia: a nessuno dei giocatori coinvolti in questa “procedura” piace rimanere seduti a vedere i compagni giocare.
Ognuno di loro è sempre a caccia di nuovi trofei, e quando capiscono di avere serie chance di alzare un titolo importante, ecco che allora accettano anche questi tipi di compromessi, anche quelli generalmente distanti dal loro mindset.
Kawhi Leonard è stato, ed è tutt’ora, il caso più emblematico in questo senso. Durante lo scorso anno, l’attuale ala dei Clippers era sotto contratto con Toronto, e i canadesi decisero che per puntare al titolo avrebbero dovuto preservare il loro cestista più importante. 22 partite saltate da Leonard e un Larry O’Brien Trophy più tardi (il primo della storia dei Raptors), il load management è diventato una pratica piuttosto diffusa, tanto che nelle ultime settimane anche i Los Angeles Clippers l’hanno sfruttata, attirando l’ira di molti tifosi. L’NBA, dal canto suo, ha ufficialmente affermato che l’ex San Antonio non fosse “abbastanza sano” per scendere in campo.
L’altra metà della Lega ha reagito manifestando il suo disappunto per questa scelta, e a dirla tutta ci sono almeno due motivi che supportano le loro proteste.
Da un lato ci sono le ragioni economiche: meno scendono in campo i fenomeni, meno la gente è invogliata a comprare i biglietti o a sedersi davanti allo schermo per godersi il match. Questo provoca un calo negli ascolti, nonché una riduzione delle entrate nelle casse della Lega, che basa il suo successo e la sua ricchezza soprattutto sui contratti derivanti dalla vendita dei diritti TV (24 miliardi di dollari in 9 anni a partire dal 2014).
Dall’altro lato c’è l’impatto sul giocatore e sulla squadra. Tutti gli atleti coinvolti nel load management sono talenti generazionali. Chiedere a Lebron James di riposare forzatamente non è per nulla semplice, visto che uno competitivo come lui vuole spesso sembrare invincibile. Non a caso, “Il Prescelto” si è espresso negativamente sulla questione, affermando che “ogni volta che mi sento bene fisicamente voglio giocare”, arrivando a dire che si riposerà solo una volta ritiratosi dall’NBA.
Altri hanno seguito le parole di James esponendo il loro dissenso, tra cui l’attuale MVP Giannis Antetokoumpo (“Se non scendo in campo non mi sento bene…il lavoro duro elimina la paura”) e niente meno che Michael Jordan, che ha dichiarato come lui paghi i suoi cestisti per “giocare 82 partite all’anno.”
Insomma, il load management ha sollevato un vero e proprio polverone mediatico. Tuttavia, come in ogni dibattito che si rispetti, c’è anche qualcuno che sostiene il contrario, vedendo l’argomento sotto una luce positiva.
Perché approvarlo
Una delle tante regole auree per vincere trofei è quella di avere tutti gli atleti al massimo della condizione nei momenti clou della stagione. Un principio multidisciplinare, perché se si vuole trionfare, tanto nel calcio, quanto nel basket o nel football americano, quello che conta è essere pronti a farlo quando la Storia chiama.
È questo che ha spinto Zinedine Zidane ad introdurre il riposo programmato per Cristiano Ronaldo dal 2016 in avanti. Durante il primo dei tre anni di conquiste europee, il tecnico francese ha compreso che nonostante l’instancabile voglia di giocare di CR7, quello che contava davvero era vincere, e perciò era imprescindibile avere il portoghese al top della condizione nel periodo tra marzo e maggio, ovvero quando la lotta per la Champions League inizia a divenire serrata.
Ronaldo, dal canto suo, ha capito che per continuare a soddisfare la sua sete di vittorie doveva accettare il compromesso senza lamentarsi. Non a caso, le sue presenze in Liga sono passate dalle 35 nel 2015-16 alle 27 nel 2017-18. E il risultato qual è stato? Molto semplicemente, 3 Champions, 1 Liga, 2 Palloni d’Oro e 3 titoli di capocannoniere della massima competizione continentale.
Nonostante questo sembri un motivo banale, è in realtà la base di ogni successo dei successi di molti team negli ultimi anni, dal Real Madrid ai Toronto Raptors, passando per i Cleveland Cavaliers, che tramite il load management di Lebron sono riusciti a raggiungere tre NBA Finals di fila pur avendo una squadra mediocre.
Non è un caso che in questa stagione, tanto la Juventus quanto le due squadre della Los Angeles cestistica stiano tentando di sfruttare questa “procedura” per raggiungere la gloria tanto ambita.
Da questo fattore potrebbe dipendere il corso di un’intera stagione. Così dicendo, però, si rischia di dimenticare che il fato potrebbe giocare un ruolo ancora più determinante. Talvolta, una traversa, una palla che rimbalza sul ferro per poi entrare o una stoppata contano più di tutto il talento del mondo messo assieme.