Storia di “João senza paura”, un CT durato 407 giorni
Al titolo di questo articolo l’Enciclopedia Treccani ha dedicato un articolo nel quale spiegava perché la versione popolare del verbo storpiare (stroppiare, ndr) fosse quella corretta. Un detto che si riferisce ad un abbondanza esagerata, a una gran fortuna che possono alla lunga diventare controproducenti. Insomma, per farla semplice, chiunque pensi di scherzare col fuoco non lo faccia seriamente, perché spesso finisce male. Destino ancora peggiore capita a tutti coloro che credono di sentirsi superiori ai “potenti” solo perché quest’ultimi si occupano di tutt’altre faccende.
João Saldanha è riuscito nel corso della sua vita a fare tutto questo. É stato un uomo poliedrico, leader studentesco, giornalista, commentatore sportivo e allenatore ad alti livelli. La Storia però non è scritta sempre e solo dai vincitori: talvolta anche le persone comuni riescono a ritagliarsi uno spazio all’interno di questo loop continuo, diventando inconsapevolmente più famosi di molti generali e scienziati che li hanno preceduti. Questa è il ritratto di un uomo che nel bene e nel male è riuscito a diventare più famoso dell’ottavo presidente statunitense, un certo Martin Van Buren di cui si sono perse le tracce nel lontano 1841.
Anticonformista
La vita di João Saldanha inizia il 3 luglio 1917 ad Alegrete, una città di 78.768 abitanti nello stato del Rio Grande do Sul, salvo poi lasciare la terra natía per emigrare a Curitiba nello stato del Paraná. Sulla sua infanzia e adolescenza girano molte leggende e qualche aneddoto vero, come quello che lo vide compagno di scuola del futuro presidente brasiliano Jânio Quadros. Contrariamente a molti suoi coetanei ebbe a che fare con le armi fin da bambino, visto che già all’età di 6 anni faceva il contrabbandiere tra il Brasile e il Paraguay non per soldi, il padre Gaspar era avvocato e politico di successo, ma per il gusto del rischio.
Il trasferimento a Rio de Janeiro lo avvicina al calcio. Gioca qualche partita con la maglia del Botafogo, sebbene nemmeno Wikipedia sappia il numero esatto, per poi laurearsi in diritto e dedicarsi alle sue vocazioni, l’attivismo politico di matrice comunista e il giornalismo. La sua ascesa in questo secondo mondo viene però interrotta, se così si può dire, da una breve parentesi come allenatore del Botafogo tra il 1957 e il 1959. In due anni conquista un campionato statale, slavo poi dimettersi in seguito a screzi con la società a causa della vendita delle stelle del club Didì e Paulo Valentim. Nel 1960 torna a fare il giornalista diventando una delle penne più rispettate a livello nazionale grazie ai suoi articoli apparsi su quotidiani e riviste di primo livello come “O Globo” e “Placar”: famose sono le sue critiche pungenti ma ponderate dirette a dirigenti e giocatori dei principali club.
Grazie alla sua fama diventa anche la voce principale delle imprese della Nazionale, sia nel vittorioso Mondiale cileno che in quello disastroso tenutosi in Inghilterra. Sarà proprio la terra di Sua Maestà a fare da sfondo a una delle decisioni più inaspettate che l’allora giornalista sceglierà di prendere, vale a dire allenare la Seleçao. Nessun uomo razionale avrebbe accettato l’incarico, ma João Saldanha non è una persona che ama perdere i treni della vita. Per uno che ha personalmente assistito alla Lunga Marcia di Mao e allo sbarco in Normandia, gestire un gruppo di calciatori non dovrebbe essere nulla di proibitivo.
Senza paura
“Ho scelto un giornalista come CT, perché così sono sicuro che con lui voialtri giornalisti sarete molto più benevoli”. Con queste parole, l’allora presidente della CBD (Confederaçao Brasileira de Desportos, attuale CBF) Havelange annunciava João Saldanha come nuovo allenatore della Nazionale. Una scelta insolita, resa ancora più bizzarra dal fatto che lo stesso cronista fosse presente fuori dalla sede della Federazione pronto a intervistare il prossimo CT. Leggenda narra che in quel momento estrasse un foglietto dalla tasca e si mise a recitare la rosa di giocatori che avrebbe convocato ai Mondiali 1970: tra di essi, Gerson, Tostao, Jairzinho, Carlos Alberto e Pelé sarebbero tutti diventati campioni l’anno successivo in terra messicana.
4 di questi 5 fenomeni erano anche presenti tre anni prima al Campionato del Mondo ospitato dall’Inghilterra. Una manifestazione storica per molti motivi, dall’esplosione di Eusebio, al gol fantasma di Hurst in finale, al fallimento italiano firmato Corea del Nord. Al Brasile non va meglio degli Azzurri, visto che venne eliminato ai gironi collezionando solo 3 punti in un gruppo con Ungheria, Bulgaria e Portogallo. Un disfatta incredibile che convince Pelé ad abbandonare la Nazionale, con una mossa che un certo Messi ripeterà 50 anni più tardi dopo la sconfitta in Copa Ámerica.
Due anni più tardi O’Rey è di nuovo al servizio della Seleçao. É il 1968, e se il leader sportivo brasiliano ritorna, un nuovo generale prende il potere: il suo nome é Emílio Médici, e la sua storia sarà legata a doppio filo a quella di Saldanha. All’epoca il Brasile è un regime militare già dal 1964, quando le Forze Armate avevano destituito tramite un golpe, coadiuvato dalla CIA e da molte dittature latinoamericane, l’allora presidente João Goulart.
Solitamente un allenatore che esercita la propria professione in un clima così teso preferisce non esporsi, ma questo non è il caso del nuovo CT brasiliano. Saldanha, un uomo capace di minacciare un suo giocatore con una pistola, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e continua a professare la sua fede comunista, forte di esperienze a comizi e scioperi nonché di raccolte fondi all’estero per conto del Partito Comunista Brasiliano.
Ciononostante, le sue affermazioni nelle prime conferenze stampa sono tanto battagliere da essere apprezzate pure dal regime. Parla di volere una squadra di undici bestie, una dichiarazione abbastanza populista da far schizzare il suo indice di gradimento nazionale attorno al 78% a Rio e al 68% a San Paolo. I tifosi gli credono soprattutto perché Saldanha porta con sé concetti innovativi, tra cui quelli dell’interscambiabilità dei ruoli (“non esistono posizioni fisse”) e la libertà di movimento, che sintetizza nella famosa frase “quattro uomini sulla stessa linea vanno bene solo per le parate militari”. Il suo modulo prediletto è un 4-2-4 completamente votato all’attacco, capace di schierare contemporaneamente Pelé, Jairzinho, Rivelino e Tostao come quattro terminali offensivi.
Leggere questi nomi induce ad una rapida domanda: dove abbiamo già visto questa formazione? La risposta è molto semplice, ovvero al Mondiale del 1970 al quale però curiosamente Saldanha partecipa da opinionista, mentre Mario Zagallo guida la Seleçao alla terza Coppa Rimet della sua storia.
Vincere non basta
“João sem medo” (Joao senza paura) si presenta quindi alle qualificazioni mondiali forte di una squadra stellare, la base del Brasile dei “cinque 10” che lascerà di stucco il mondo con il suo futebol bailado. Le qualificazioni sono un autentico show in cui Pelé e compagni travolgono tutti quello che si trovano davanti. Vince sei partite su sei, segnando 23 gol e subendone solo 2, e su 12 incontri ufficiali complessivi ne perde solo uno contro l’Argentina a Porto Alegre, riuscendo anche a togliersi lo sfizio di battere l’Inghilterra di Sir Alf Ramsey al Maracaná.
Dalla sconfitta post-qualificazione contro la Selección, però, qualcosa inizia a scricchiolare. In quel match Saldanha non convoca Dadá Maravilha, attaccante dell’Atletico Mineiro di cui fa il tifo anche il generale Médici. Da quel giorno Saldanha inizia a essere visto con sospetto dai servizi segreti, anche e soprattutto per le sue idee politiche che certamente non coincidono con quelle del governo. Come se non fosse già abbastanza, il CT comincia ad atteggiarsi in maniera piuttosto insolita, cacciando il portiere Felix senza preavviso oppure convocando Toninho e Scala per poi rimandarli a casa perché infortunati, facendo infuriare i rispettivi club che invece li valutano sanissimi. Il problema più grave sorge quando il tecnico della Seleçao afferma che O’Rey rischia fortemente di diventare cieco, e che per questo motivo potrebbe non essere convocato in Messico. Saldanha sa che dopo questa dichiarazione il suo posto è fortemente a rischio, ma prosegue comunque nella preparazione al Mondiale.
Il 14 marzo, in un’amichevole peraltro non ufficiale, il Brasile pareggia 1-1 tra i fischi. I verdeoro visti quella sera sono gli ultimi targati “Joao sem medo”, visto che tre giorni dopo viene informato dalla Federazione che la sua avventura è conclusa.
Con il senno del poi, i meriti di Saldanha sono molti di più di quelli che gli vengono riconosciuti. É lui a detenere il record di imbattibilità di un CT in Nazionale, ed è sempre lui ad avere plasmato la rosa di campioni che dominerà la Coppa del Mondo 1970, contribuendo ad alimentare la leggenda di una squadra celestiale. Paradossalmente, l’unico suo grande difetto è stato quello di credere di possedere la libertà di espressione. In un Paese come il Brasile degli anni ’60 e ’70, avere idee diverse da quelle dei generali é estremamente pericoloso, e manifestarle apertamente significa sostanzialmente sottoscrivere il proprio certificato di morte.
La morte sportiva, João Saldanha la incontra dicendo una semplice frase durante un colloquio a palazzo. Erano i giorni delle convocazioni per il Messico, e il generale Médici voleva che il suo pupillo Didì partecipasse alla rassegna iridata. Il CT, che calcisticamente parlando non poteva che essere in disaccordo con il capo, si limitò a dare la sua versione dei fatti affermando che “chi sceglie i giocatori sono io, quando lei scelse i suoi ministri non chiese la mia opinione”.
Senza saperlo, in quel momento l’allora tecnico della Seleçao si era appena auto licenziato. Un esonero alquanto insolito e strano, nato da un privilegio inalienabile degli esser umani: la libertà di parola.
